Codice della strada alcol test. Alcool test

Codice della strada alcol test

codice della strada alcol test

Alcol Test: Cos’è, Come Funziona e Quando è Obbligatorio

L’ alcol test è uno strumento fondamentale per garantire la sicurezza stradale, utilizzato dalle forze dell’ordine per misurare il livello di alcol nel sangue dei conducenti. Guidare in stato di ebbrezza (codice della strada ebbrezza) è una delle principali cause di incidenti stradali, per questo la normativa italiana prevede controlli severi e sanzioni (multa alcol test, sanzioni alcol test) per chi supera i limiti consentiti.

Cos’è l’ Alcool Test?

L’ alcool test è un controllo eseguito con dispositivi come l’etilometro, che misura la concentrazione di alcol nel sangue (BAC, Blood Alcohol Content) attraverso l’analisi dell’aria espirata. Questo strumento permette di verificare se il conducente ha un tasso alcolemico superiore a quello consentito dalla legge.

In Italia, il limite di alcol nel sangue è di:

  • 0,5 g/l per la maggior parte dei conducenti.
  • 0,0 g/l per neopatentati (con patente da meno di 3 anni) e professionisti (autisti di autobus o camion).

Superare questi limiti comporta gravi conseguenze legali, con sanzioni proporzionate al livello di ebbrezza rilevato.

Come Funziona l’ Alcol Test?

L’alcool test viene eseguito dalle forze dell’ordine utilizzando un etilometro omologato. Il conducente deve soffiare in un boccaglio collegato al dispositivo, che rileva la quantità di alcol nell’aria espirata. Solitamente, si effettuano due misurazioni a distanza di pochi minuti per garantire l’accuratezza del risultato.

Se il tasso alcolemico risulta superiore ai limiti consentiti, il conducente può essere sottoposto a ulteriori accertamenti, come un prelievo del sangue, per confermare i risultati.

Codice della strada alcol test: quando è Obbligatorio l’ Alcool Test?

L’alcool test può essere effettuato in diverse situazioni:

  • Controlli a campione: Durante le normali attività di controllo stradale, le forze dell’ordine possono fermare i veicoli e sottoporre i conducenti al test.
  • Incidenti stradali: Se un conducente è coinvolto in un incidente, l’alcool test è obbligatorio per verificare se era sotto l’effetto dell’alcol.
  • Comportamento sospetto: Se un agente di polizia nota comportamenti sospetti durante la guida, come sbandamenti o rallentamenti improvvisi, può chiedere al conducente di sottoporsi al test.

Sanzione alcol test

Superare il limite consentito di alcol comporta sanzioni che variano in base alla gravità dell’infrazione:

  • Sanzione amministrativa (da 0,5 g/l a 0,8 g/l): Multa fino a 2.000 euro e sospensione della patente da 3 a 6 mesi.
  • Reato penale (oltre 0,8 g/l): Multe più elevate, sospensione della patente fino a 12 mesi, possibile confisca del veicolo e reclusione in casi gravi.

Per tassi superiori a 1,5 g/l, le sanzioni includono arresto, revoca della patente e sequestro del veicolo.

Alcol test: illegittimo il verbale se l’apparecchio non è omologato

In tema di violazione al codice della strada, la legge sulla guida in stato di ebbrezza prevede il verbale dell’accertamento effettuato mediante etilometro deve contenere, alla luce di un’interpretazione costituzionalmente orientata, l’attestazione della verifica che l’apparecchio da adoperare per l’esecuzione del cd. “alcooltest” è stato preventivamente sottoposto alla prescritta ed aggiornata omologazione ed alla indispensabile corretta calibratura; l’onere della prova del completo espletamento di tali attività strumentali grava, nel giudizio di opposizione, sulla P.A., poiché concerne il fatto costitutivo della pretesa sanzionatoria. É quanto si legge nell’ordinanza della Cassazione del 10 febbraio 2022, n. 4288.

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321 CPP Sequestro Preventivo e Sequestro Pro Quota

321 CPP

321 cpp

Art 321 Codice Procedura Penale

L’articolo 321 del Codice di Procedura Penale (CPP) italiano disciplina il sequestro preventivo, uno strumento giudiziario fondamentale volto a bloccare beni o proprietà che potrebbero essere utilizzati per commettere reati o che rappresentano il profitto di un reato.

Cosa Prevede l’ articolo 321 codice procedura penale?

L’ ex art 321 CPP sequestro preventivo stabilisce che il sequestro può essere disposto dal giudice su richiesta del pubblico ministero quando esiste il rischio che la disponibilità del bene possa aggravare o protrarre le conseguenze del reato, oppure agevolarne la commissione. Il sequestro può riguardare beni mobili, immobili, somme di denaro, o altri beni che potrebbero avere un collegamento diretto o indiretto con l’attività criminale.

Finalità del Sequestro Preventivo

Il sequestro preventivo è una misura cautelare che ha lo scopo di:

  • Impedire la prosecuzione del reato: Se un bene è utilizzato per commettere un crimine, la sua sottrazione previene il reiterarsi del reato.
  • Preservare il valore dei beni: Quando un bene è il profitto di un’attività illecita, il sequestro evita che esso venga disperso o utilizzato ulteriormente.
  • Garantire un futuro risarcimento: I beni sequestrati possono essere destinati, successivamente, a coprire eventuali sanzioni pecuniarie o risarcimenti a favore delle vittime del reato.

Applicazione Pratica del Sequestro Preventivo

Il sequestro preventivo può essere applicato in vari contesti, tra cui:

  • Reati finanziari: Blocco di conti correnti o beni aziendali quando si sospetta frode fiscale, riciclaggio o altri reati economici.
  • Beni legati al traffico di droga: Sequestri di proprietà o veicoli utilizzati per il traffico di stupefacenti.
  • Corruzione e reati contro la pubblica amministrazione: Il sequestro può colpire denaro o beni ottenuti tramite atti di corruzione.

Impugnazione del Sequestro Preventivo

Chi subisce un sequestro preventivo ha il diritto di fare opposizione attraverso una richiesta di riesame al tribunale competente. Il riesame permette di contestare la legittimità del sequestro, e il giudice può decidere se confermare, annullare o modificare il provvedimento.

Sequestro Pro Quota

Pronunciandosi su un ricorso proposto avverso l’ordinanza con cui il tribunale del riesame aveva dissequestrato per intero gli immobili di proprietà di un soggetto, indagato per il reato di frode fiscale ex art. 2, D.Lgs. n. 74/2000, senza in alcun modo considerare la possibilità di un sequestro pro quota, la Corte di Cassazione penale, Sez. III, con la sentenza 8 febbraio 2022, n. 4366 – nell’accogliere la tesi del Procuratore della Repubblica, ricorrente in Cassazione, secondo cui erronea doveva ritenersi la decisione del tribunale di dissequestrare interamente i beni dell’indagato, giustificata in ragione del rispetto del principio di proporzionalità tra il profitto del reato e il quantum sottoposto a vincolo reale – ha ribadito il principio secondo cui trova piena agibilità, nell’ordinamento, l’effettuazione del sequestro di un immobile appartenente per intero all’indagato, solo per una parte: infatti, l’apposizione del vincolo preordinato all’ablazione entro tale limite non è affatto illegittima, stante anche, in via generale, la preferenza accordata dall’ordinamento al sequestro del denaro, cui consegue la necessità di sequestrare anzitutto il denaro e, per il residuo, gli altri beni, anche non per intero. Tale sequestro, inoltre, non può neppure dirsi concettualmente errato o astrattamente inammissibile, ben potendo il vincolo cautelare preordinato alla confisca essere apposto su di un bene solo fino alla concorrenza del profitto del reato da sequestrare, cioè pro quota, rimanendo l’eventuale eccedenza di valore nella disponibilità dell’indagato.

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131 bis cp legittimo. Resistenza a pubblico ufficiale.

131 bis cp

131 bis cp

Costituzionalmente legittimo l’ articolo 131 bis cp nella parte in cui esclude che il giudice possa ritenere l’offesa di particolare tenuità nei casi di resistenza a un pubblico ufficiale

art 131 bis cp

C. cost., sent. 5 marzo 2021, n. 30, Pres. Coraggio, Red. Petitti

1. Con la sentenza n. 30/2021 la Corte costituzionale si è pronunciata sulle questioni di legittimità costituzionale sollevate – con ordinanze pubblicate in questa Rivista – dal Tribunale di Torino e dal Tribunale di Torre Annunziata. Le questioni riguardavano l’art. 131-bis c.p., nella parte in cui – in seguito alla modifica introdotta dall’art. 16 c. 1, lett. b), d.l. 14 giugno 2019, n. 53, convertito, con modificazioni, nella l. 8 agosto 2019, n. 77 – prevede che l’offesa non possa essere ritenuta di particolare tenuità nei casi di cui all’art. 337 c.p., quando il reato è commesso nei confronti di un pubblico ufficiale nell’esercizio delle proprie funzioni.

2. Diversi i parametri costituzionali invocati.

2.1. Ad avviso del Tribunale di Torino l’art. 131-bis c.p. si pone in contrasto con gli artt. 3, 27 c. 3 Cost. e con l’art. 117 c. 1 Cost., in relazione all’art. 49, § 3, CDFUE. Il punto centrale della doglianza ruota attorno alla seguente considerazione: l’esclusione prevista rispetto all’art. 337 c.p. si pone in contrasto con i principi di uguaglianza, ragionevolezza e proporzionalità perché – al contrario delle altre ipotesi in cui, ai sensi dell’art. 131-bis c.p., l’offesa non può essere ritenuta di particolare tenuità – è collegata unicamente al titolo del reato e non a particolari caratteristiche del fatto, inerenti, ad esempio, alle modalità della condotta, alla gravità delle conseguenze del reato e alla colpevolezza. L’irragionevolezza della norma era stata sostenuta, tra l’altro, anche facendo riferimento a fattispecie poste a tutela di beni giuridici analoghi rispetto a quello protetto dall’art. 337 c.p. e, ciò nonostante, non escluse dall’applicazione dell’art. 131-bis c.p. In punto di proporzione, il giudice a quo rilevava, poi, come l’esclusione ancorata al solo titolo di reato potesse portare a una condanna anche in casi in cui non sussiste un ‘bisogno di pena’.

2.2. Il Tribunale di Torre Annunziata ha prospettato l’illegittimità costituzionale dell’art. 16 c. 1, lett. b), d.l. n. 53 del 2019, come convertito, nella parte in cui, modificando l’art. 131-bis, c. 2, c.p., ha previsto che l’offesa non possa essere ritenuta di particolare tenuità nei casi di cui all’art. 337 c.p., quando il reato è commesso nei confronti di un pubblico ufficiale nell’esercizio delle proprie funzioni. I seguenti sono i parametri invocati: gli artt. 1, 25 c. 2, 27 c. 1 e 3 per violazione dei principi di ragionevolezza, proporzionalità e finalismo rieducativo della pena; l’art. 77 Cost. per eterogeneità rispetto al decreto-legge in cui la norma è inserita.

3. Una questione è stata dichiarata inammissibile, mentre le altre, affrontate nel merito, sono state ritenute infondate.

3.1. La Corte costituzionale, in particolare, ha dichiarato inammissibile la questione, sollevata dal Tribunale di Torino, concernente il contrasto dall’art. 131-bis, c. 2, c.p. con l’art. 117 Cost. in relazione all’art. 49 § 3 CDFUE. In particolare, richiamando la giurisprudenza costituzionale sul punto, la Corte ricorda come la CDFUE possa essere invocata come parametro interposto solo quando la fattispecie oggetto della legislazione interna sia disciplinata dal diritto europeo, requisito non sussistente nel caso di specie.

3.2. Le altre questioni sono state dichiarate infondate. Quanto alla questione relativa alla violazione dell’art. 77 Cost., l’infondatezza vene motivata – in linea con la giurisprudenza costituzionale – evidenziando che la violazione di tale norma costituzionale si determina solo quando “la disposizione aggiunta in sede di conversione sia totalmente «estranea», o addirittura «intrusa», cioè tale da interrompere ogni nesso di correlazione tra il decreto-legge e la legge di conversione”. Nel caso di specie, trattandosi di un decreto-legge contenente ab origine disposizioni eterogenee, l’omogeneità della disposizione aggiunta in sede di conversione deve essere valutata sotto il profilo teleologico. Il d.l. n. 53/2019 è animato dalla finalità di garantire una tutela più efficace della sicurezza pubblica, di rafforzare le norma poste a garanzia del regolare e pacifico svolgimento delle manifestazioni nei luoghi pubblici e aperti al pubblico, “nel più ampio quadro delle attività di prevenzione dei rischi per l’ordine e l’incolumità pubblica”. Tanto premesso, la Corte costituzionale ritiene che la disposizione aggiunta in sede di conversione – essendo finalizzata ad “assicurare una maggiore tutela ai pubblici ufficiali quali tramite necessario dell’agire della pubblica amministrazione” – non sia né “estranea”, né “intrusa” rispetto alla materia della sicurezza pubblica, né alla ratio ispiratrice del decreto.

Infondate sono anche le questioni con le quali veniva prospettata la violazione dei principi di ragionevolezza, proporzionalità̀ e finalismo rieducativo della pena.

Sotto il profilo della ragionevolezza, la Corte, dopo aver ribadito che le scelte del legislatore circa l’ampiezza applicativa della causa di non punibilità̀ di cui all’art. 131-bis c.p. solo sindacabili soltanto per manifesta irragionevolezza, esclude che la norma in questione sia censurabile sotto questo profilo. Infatti, la scelta di escludere che l’offesa possa essere ritenuta di particolare tenuità nel caso del delitto di cui all’art. 377 c.p. “corrisponde all’individuazione discrezionale di un bene giuridico complesso, ritenuto meritevole di speciale protezione”. Tale complessità, rileva la Corte, è stata rimarcata anche dalle Sezioni Unite, “laddove hanno osservato che il normale funzionamento della pubblica amministrazione tutelato dall’art. 337 cod. pen. va inteso «in senso ampio», poiché include anche «la sicurezza e la libertà di determinazione» delle persone fisiche che esercitano le pubbliche funzioni”.

La Corte, poi, respinge anche le censure fondate sui principi di proporzionalità e finalismo rieducativo, in considerazione del fatto che si è in presenza di un “fatto-reato intrinsecamente offensivo” di un bene giuridico avente – come anticipato – carattere complesso e che i criteri di cui all’art. 133 c. 1 c.p. – richiamati dall’art. 131-bisc.p. – se è vero che non assumono rilievo ai fini dell’applicazione della causa di non punibilità, è altrettanto vero anche che conservano “la loro ordinaria funzione di dosimetria sanzionatoria, unitamente a quelli di cui al secondo comma del medesimo art. 133”.

Non pertinente, poi, è ritenuto il riferimento – operato nell’ordinanza del Tribunale di Torre Annunziata – alle presunzioni assolute: nel caso in esame, infatti, il legislatore non ha fatto ricorso a una presunzione ma ha identificato – nell’esercizio della discrezionalità di cui gode in materia di politica criminale – “un bene giuridico di speciale pregnanza, cui ha ritenuto di assegnare una protezione rafforzata”.

Infine, nella prospettiva della violazione dell’art. 3 Cost., la Corte costituzionale ritiene che i tertia addotti dai giudici a quo non siano provvisti dell’omogeneità necessaria ai fini del giudizio comparativo.

Per queste ragioni, la Corte ritiene che le questioni sollevate siano tutte infondate, ad eccezione di quella inerente all’art. 117c. 1 Cost., in relazione all’art. 49, § 3 CDFUE, dichiarata inammissibile.

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Risarcimento danni operazione chirurgica. Condanna chirurgo

Risarcimento danni operazione chirurgica

risarcimento danni operazione chirurgica

Non è possibile condannare il chirurgo senza indicare le linee guida alle quali si sarebbe dovuto ispirare ed il comportamento esigibile dal sanitario.

Questo è quanto emerge dalla sentenza 20 settembre 2021, n. 34629 (testo in calce) della Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione.

Risarcimento danni per intervento chirurgico sbagliato

Il fatto

Il caso vedeva un paziente affetto da patologie cardiache essere sottoposto ad un esame che aveva evidenziato un adenocarcinoma a carico dell’apparato intestinale. L’uomo veniva quindi ricoverato per l’esecuzione di una intervento di emicolectomia sinistra. Lo stesso giorno era stato sottoposto ad ecografia addominale al fine di verificare la presenza di metastasi e detto esame aveva evidenziato la presenza di noduli ai reni. Il giorno seguente il paziente era stato sottoposto all’intervento chirurgico programmato e, nel corso dell’intervento, erano state compiute manovre di palpazione e mobilizzazione del rene sinistro nel tentativo di osservare le lesioni evidenziate dall’ecografia, così producendo una grave emorragia con copiosa perdita di sangue e lesione della milza. Il paziente veniva, quindi, immediatamente sottoposto a trasfusione e ad intervento di asportazione del rene sinistro, purtroppo del tutto inutilmente in quanto, dopo poco tempo, era deceduto.

La decisione

Il giudice investito del compito di pronunciarsi in ordine alla responsabilità del sanitario per l’evento lesivo causato nel praticare l’attività medica, è tenuto a rendere una articolata motivazione, dovendo verificare, in primo luogo, se il caso concreto sia regolato dal linee guida o, in mancanza, da buone pratiche clinico-assistenziali, dovendo specificare la natura della colpa spiegando se ed in quale misura la condotta del sanitario si sia discostata dalle regole di cui sopra.

In merito all’accertamento della colpa, il dettato dell’art. 3, comma 1, d.l. 13 settembre 2012, n. 158, convertito con modificazioni dalla l. 8 novembre 2021, n. 189, è stato interpretato nel senso di avere limitato i casi di responsabilità del sanitario, essendo esente da responsabilità penale la condotta che sia rispettosa delle linee-guida connotata da colpa lieve (Cass. pen., Sez. IV, 11 maggio 2016, n. 23283).

Sempre con riguardo alla natura della colpa, detto elemento assume rilievo quando la fattispecie sia sussumibile nell’ambito di applicazione dell’art. 590-sexies, c.p., introdotto dall’art. 5 della l. 8 marzo 2017, n. 24, applicabile ai soli casi di imperizia per colpa lieve; l’abrogato art. 3, comma 1, d.l. 13 settembre 2012, n. 158, si configura quale norma più favorevole rispetto all’art. 590-sexies c.p., sia con riferimento alla condotta connotata da colpa lieve per negligenza o imprudenza, sia in caso di errore determinato da colpa lieve per imperizia intervenuto nella fase della scelta delle linee-guida adeguate al caso concreto (Cass. pen., Sez. Un., n. 8770/2018).

È evidente che il giudizio sulla responsabilità del sanitario non può prescindere dalla disposizione che impone al giudice penale di applicare la legge più favorevole, ai sensi dell’art. 2, comma 4, c.p.

La sentenza impugnata risulta priva di qualsiasi riferimento in proposito; infatti, occorre precisare che la sentenza di primo grado era stata emessa nel vigore dell’art. 3 della l. 8 novembre 2012, n. 189, e che, secondo il principio che regola la successione delle leggi penali nel tempo, la Corte territoriale ha omesso di verificare l’applicabilità della normativa più favorevole

Oltre a quanto appena specificato, occorre evidenziare come l’introduzione della valutazione dell’operato del sanitario con riferimento alle linee-guida e alle buone pratiche clinico-assistenziali, ad opera del decreto Balduzzi, abbia modificato i termini del giudizio penale imponendo al giudice non solo una disamina completa della condotta colposa ascrivibile al medico alla luce di detti parametri, ma anche una indagine che accerti, sulla base di tali parametri, quello che sarebbe stato il comportamento alternativo corretto che ci si doveva attendere dal professionista.

Nella fattispecie i giudici del merito hanno trascurato siffatta indagine, con conseguente carenza di motivazione della sentenza impugnata, risultando correttamente indicato quale motivo di censura l’omesso confronto tra tesi contrapposte sulla causalità materiale dell’evento. In altre parole, il giudice di merito avrebbe dovuto accertare la sussistenza di una soluzione sufficientemente affidabile, costituita da una metateoria frutto di una ponderata valutazione delle differenti rappresentazioni scientifiche del problema, in grado di fornire concrete, significative e attendibili informazioni idonee a sorreggere l’argomentazione probatoria inerente allo specifico caso esaminato, dovendo, in contrario, disporre una perizia ovvero pervenire a un giudizio di non superamento del ragionevole dubbio (Cass. pen., Sez. IV, 10 marzo 2016, n. 5493).

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Reati ambientali e inquinamento ambientale

Reati Ambientali

reati ambientali

Reati ambientali rappresentano una grave minaccia per la tutela dell’ambiente e della salute pubblica.

Cosa Sono i Reati Ambientali?

Il reato ambientale è una violazione delle leggi che proteggono l’ambiente e possono comprendere una vasta gamma di attività illecite, come:

  • Inquinamento di acque, aria o suolo.
  • Smaltimento illecito di rifiuti pericolosi o non trattati correttamente.
  • Disboscamento abusivo e distruzione di habitat naturali.
  • Traffico illegale di animali o piante protette.
  • Costruzioni abusive in aree protette o paesaggi vincolati.

Questi comportamenti non solo compromettono l’equilibrio naturale, ma mettono anche a rischio la salute delle persone che vivono nelle aree interessate.

Legge sugli Ecoreati

Nel 2015, l’Italia ha approvato la Legge sugli Ecoreati (Legge reati ambientali 68/2015), che ha introdotto nuove figure di reato nel Codice Penale, come il disastro ambientale e l’inquinamento ambientale. Queste norme mirano a punire chiunque causi gravi danni all’ambiente, prevedendo pene severe che includono:

  • Reclusione da 2 a 6 anni e multe fino a 100.000 euro per il reato di inquinamento ambientale.
  • Reclusione da 5 a 15 anni per il disastro ambientale.

Inoltre, la legge prevede anche misure accessorie, come la bonifica dei luoghi inquinati e la confisca dei beni utilizzati per commettere i reati.

Conseguenze Legali dei Reati Ambientali

Oltre alle sanzioni penali, i responsabili di illeciti ambientali possono essere obbligati a risarcire i danni provocati. Il risarcimento include sia i costi per il ripristino delle aree danneggiate che quelli per i danni alla salute pubblica. Inoltre, chi commette reati ambientali può subire il sequestro di impianti, veicoli o altre attrezzature utilizzate per commettere l’illecito.

Il requisito del pericolo nel reato di inquinamento ambientale Categoria: Ecoreati Autorità: Cass. Pen. Sez. III Data: 08/01/2021 n. 392

Se è vero che, con riguardo al delitto di inquinamento ambientale (di cui all’art. 452-bis cod. pen.), l’accertamento di un concreto pregiudizio arrecato all’ambiente va effettuato nei limiti di rilevanza determinati dalla fattispecie incriminatrice (che non richiedono necessariamente la prova della contaminazione del sito e, dunque, renderebbero non dirimente il mancato superamento delle “concentrazioni soglia di rischio”) non deve trascurarsi che la compromissione e il deterioramento devono riguardare “porzioni estese o significative” del suolo, solo così acquistando concretezza il requisito del pericolo richiesto dalla norma.

La Sentenza

Ritenuto in fatto

  1. Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di S. ha proposto ricorso avverso la ordinanza del Tribunale di S. di rigetto dell’appello dello stesso P.M. avverso il decreto del G.i.p. di reiezione della richiesta di sequestro preventivo del fondo di mq. 30.000 situato in M. e adibito, tra il 2003 e il 2012, a poligono di tiro gestito dalla “associazione tiro dinamico senese” per il reato, tra gli altri addebitati, di cui all’art. 452-bis cod. pen. in relazione alla compromissione e al deterioramento dei terreni causati dai rifiuti generati dalla attività di tiro e non rimossi.
  2. Con un primo motivo deduce violazione degli artt. 321 cod. proc. pen. e 452 bis cod. pen. Rileva che il Tribunale ha ritenuto insussistente il fumus dell’elemento del reato rappresentato dai significativi compressione e deterioramento dell’inquinamento del terreno provocato dalla mancata rimozione delle munizioni esplose posto che, da un lato, i risultati delle analisi di Arpat nell’ambito di procedura di bonifica attivata ex art. 242 del d.lgs. n. 152 del 2006 avrebbero evidenziato il superamento delle concentrazioni soglia rischio per una sola delle diciannove sub-aree di cui al terreno e, dall’altro, quanto alla consulenza del P.M., il solo superamento delle concentrazioni soglia non proverebbe un danno ambientale, dovendo caratterizzarsi il sito al fine di verificare l’effettiva contaminazione. Rileva allora il ricorrente come il Tribunale, tra l’altro non considerando gli esiti della consulenza del P.M., abbia non correttamente adottato criteri di valutazione propri del giudizio di merito e non di quello cautelare, e come, inoltre, l’avere scelto quale parametro quello della concentrazione soglia di rischio conduca ad escludere tutte quelle ipotesi in cui l’analisi di rischio, effettuata su una matrice ambientale, nell’ambito di una procedura di bonifica, non evidenzia appunto un superamento di tali concentrazioni, in contrasto con l’affermazione della Corte di cassazione secondo cui il reato di cui all’art. 452-bis cod. pen. ha quale oggetto di tutela penale l’ambiente e postula l’accertamento di un concreto pregiudizio a questo arrecato secondo i limiti di rilevanza determinati dalla nuova norma incriminatrice che non richiedono la prova della contaminazione del sito nel senso indicato dagli artt. 240 e ss. d. Igs. n. 152 del 2006.
  3. Con un secondo motivo lamenta la violazione dell’art. 452-bis cod. pen. in relaziòne al requisito della “abusività” della condotta, ritenuto dal Tribunale insussistente a fronte del fatto che l’accumulo dei residui delle munizioni non è stata frutto di condotta abusiva. Tuttavia abusività non significherebbe solo carenza di autorizzazione ma anche condotte compiute in violazione di leggi statali o regionali o di prescrizione amministrative ancorché ufficiale non strettamente pertinenti al settore ambientale; e tra di esse rientrerebbero dunque anche l’inosservanza delle prescrizioni imposte dal progetto di bonifica.
  4. Con un terzo motivo lamenta la violazione dell’art. 321 cod. proc. pen. in relazione al requisito del periculum in mora. A fronte dell’affermazione del Tribunale per cui il rischio di aggravamento delle conseguenze del reato deriva dalla permanenza in loco dei rifiuti, sicché il sequestro dell’area non avrebbe alcun effetto utile, si osserva che la possibilità di accedere liberamente al fondo potrebbe favorire la lesione di beni giuridici ulteriori e diversi rispetto a quello dell’ambiente ovvero la commissione da parte dell’indagato di ulteriori reati in materia ambientale. Ha presentato memoria l’indagato chiedendo in primis l’inammissibilità del ricorso, posto che la Procura avrebbe chiesto una rivalutazione in fatto del raggiungimento della soglia di compromissione dei luoghi necessaria per la verificazione del pericolo, e, in subordine, il rigetto.

Considerato in diritto

  1. Il primo motivo del ricorso, riguardante il profilo del fumus del reato specificamente considerato nel provvedimento impugnato, ovvero ‘quello di cui all’art. 452-bis cod. pen., è inammissibile. L’assunto del P.M. è infatti incentrato sulla pretesa erronea valorizzazione, espressa dai giudici del riesame ai fini di ritenere la sussistenza di elementi indicativi, allo stato, della compromissione o deterioramento significativi e misurabili del suolo in oggetto, del solo parametro rappresentato dalle “concentrazioni soglia rischio” utilizzato nelle analisi dell’Arpat (parametro superato, come visto sopra, in relazione ad una sola delle sub-aree) trascurando, invece, di considerare l’ulteriore parametro rappresentato dalla concentrazione soglie di contaminazione, il cui superamento, valorizzato nell’analisi del proprio consulente, sarebbe stato ingiustificatamente pretermesso dallo stesso Tribunale. Ora, se è ben vero che, secondo quanto già affermato da questa Corte, con riguardo al delitto di inquinamento ambientale di cui all’art. 452-bis cod, pen., introdotto dalla legge n. 68 del 2015, l’accertamento di un concreto pregiudizio arrecato all’ambiente va effettuato nei limiti di rilevanza determinati dalla nuova fattispecie incriminatrice, che non richiedono necessariamente la prova della contaminazione del sito nel senso indicato in particolare dalla lett. e) dell’art. 240 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (Sez. 3, n. 50018 del 19/09/2018, Izzo, Rv. 274864), e, dunque, renderebbero non dirimente il mancato superamento delle “concentrazioni soglia-rischio”, non deve neppure trascurarsi che la compromissione e il deterioramento richiesti devono riguardare, secondo quanto testualmente enunciato dalla stessa norma codicistica, “porzioni estese o significative” dello stesso suolo, solo così acquistando concretezza, nella strutturazione della previsione, il requisito del pericolo. Ne deriva che, a fronte della affermazione dell’ordinanza impugnata in ordine alla presenza di pericolo di inquinamento, sia pure valutata attraverso il superamento delle concentrazioni di soglia rischio, in una sola delle diciannove sub-aree di cui si compone il terreno, sarebbe stato onere del P.M. specificare se, invece, l’affermata sussistenza di superamento del livello di concentrazione soglia di contaminazione risultante da plurimi campioni prelevati durante le analisi, abbia riguardato una sola o più sub-aree, e se sì, quante, ricomprese nel terreno in sequestro. In altri termini, proprio in ordine al necessario profilo di valutazione, riguardante anche la fase cautelare inerente la diffusività, all’interno del suolo in oggetto, della compromissione o del deterioramento conseguente alla condotta omissiva contestata all’indagato, da cui non può evidentemente prescindersi neppure in caso di valorizzazione del superamento del livello di concentrazione soglia di contaminazione, è mancata, nel ricorso del Pubblico Ministero, ogni specificazione idonea a consentire una corretta valutazione del fumus relativo a tutti gli elementi costitutivi richiesti dalla previsione dell’art. 452-bis cit.. Il motivo appare dunque generico sul punto, e, conseguentemente, inammissibile, restando inoltre assorbito il secondo motivo relativo al profilo della présenza della natura “abusiva” della condotta.
  2. In ogni caso, anche il terzo motivo, relativo alle esigenze cautelari sulla cui base è stato richiesto il sequestro, è inammissibile. L’ordinanza impugnata, onde escludere la ricorrenza delle stesse, ha chiarito in primo luogo che, essendo il pericolo di inquinamento legato, nella specie, non ad una condotta attiva dell’uomo che si tratti di impedire (peraltro il terreno è stato restituito al legittimo proprietario nell’anno 2016), ma al rilascio di sostanze dai rifiuti (bossoli, ogive e munizioni) depositati in loco per effetto dell’attività di tiro esercitata a suo tempo ed ora cessata, non troverebbe ragion d’essere una misura che, come il sequestro dell’area, tale rilascio non potrebbe certo impedire, giacché solo un’opera di completa bonifica del suolo potrebbe, evidentemente, evitare la verificazione di una prosecuzione del pericolo. Tale assunto, certamente coerente con la ratio stessa della misura, non è stato contrastato, in ricorso, dal P.M. che ha invece fatto leva sulla possibilità che il libero accesso al fondo (ora, come detto, nelle mani del proprietario-terzo) giacché non recintato, di terzi, potrebbe cagionare la lesioni di beni giuridici, quali la salute, diversi ed ulteriori rispetto a quelli dell’ambiente. Sennonché, a prescindere da ogni altra considerazione, già l’ordinanza impugnata aveva chiarito, sotto un profilo fattuale, qui non sindacabile (tanto più versandosi in presenza dei limiti di impugnabilità discendenti dall’art. 325, comma 1, cod. proc. pen.) e, dunque, non censurabile neppure dal ricorrente, soprattutto laddove la prospettazione venga fatta in astratto, non essere, dagli atti di indagine, emerso alcun rischio, concreto ed attuale, per la salute delle persone, trattandosi “di una zona nella quale transitano solo sporadicamente i cacciatori, ma che di fatto non è utilizzata per alcuna attività”.
  3. In definitiva il ricorso del Pubblico Ministero deve essere, per le ragioni sopra esposte, dichiarato inammissibile.

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